Ho iniziato con la paura di non saper cosa dire. Di cosa si può parlare con un disabile? Non conta se hai letto dei manuali, o studiato qualcosa. Perché di fronte alla persona le teorie valgono poco, spesso proprio niente. Ti servono per comprendere quello che c’è scritto nelle cartelle cliniche, ma non ti bastano per capire chi hai di fronte. E allora che cosa dire a questi disabili? Quali sono le parole giuste da usare? In quest’anno trascorso assieme ho scoperto che non ci sono. Non esistono parole giuste, né comportamenti appropriati. È bastato entrare il primo giorno e salutare, le persone che ho incontrato hanno fatto tutto il resto e stare assieme è stato facile, normale. Certo, a volte qualcuno di noi aveva fretta di dire la sua e non ha rispettato il suo turno, ma abbiamo anche riso molto. A volte qualcuno ha alzato la voce perché non era d’accordo o qualcosa lo aveva infastidito, ci sono stati momenti in cui abbiamo cantato invece di parlare. E anche chi non sa parlare alla fine mi ha raccontato qualcosa, me ne sono resa conto quando ho capito che prima di parlare dovevo stare ad ascoltare. In quest’anno di Servizio Civile ho imparato ad ascoltare. Credevo di saperlo già fare ma, in parte, mi sbagliavo. Ognuno di noi è convinto di saper ascoltare ma spesso, senza rendercene conto, non ascoltiamo veramente. Il più delle volte facciamo le domande pensando di conoscere già le risposte, crediamo di sapere cosa è giusto e cosa no, perché loro sono disabili e hanno bisogno che gli si indichi la strada. Ed effettivamente le persone con disabilità hanno bisogno di noi. Ma quest’anno ho imparato che se non chiediamo anche a loro da che parte vogliono andare, rischiamo di dare una risposta senza aver ascoltato la richiesta. Perché magari il linguaggio è confuso, o le parole proprio non ci sono. È tutto più complicato se non ci sono le parole. Non posso dirti no grazie, non posso spiegarti ciò che vorrei. Devo affidarmi a te e sperare che tu capisca ciò che ti volevo dire. Credevo che essere d’aiuto a qualcuno significasse mettermi davanti a lui e indicargli la strada. Mi sbagliavo. In quest’anno ho imparato che bisogna mettersi a fianco delle persone che scegli di aiutare. Non davanti per guidare, nè dietro per spingere. Camminare a fianco significa andare alla velocità dell’altro, significa permettergli di scegliere quando fermarsi, ma rimanere sempre abbastanza vicini da non farlo mai cadere.
La vita è fatta di percorsi e il più delle volte davanti a te si aprono strade sulle quali non avevi pensato di camminare. Ma se scegli la strada giusta per te di solito te ne accorgi alla fine, quando il sentiero percorso è stato così emozionante da farti voltare con nostalgia, ma anche così inteso da darti nuova energia per continuare a percorrere altre strade.
Sara Sabbadin, “Costruendo reti solidali”, 2015
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